La Repubblica italiana è nata con un profondo vulnus al suo confine orientale. Le tumultuose fasi conclusive della Seconda guerra mondiale nelle province di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara videro eclissarsi definitivamente la statualità italiana, resasi qui effimera già all’indomani dell’8 settembre 1943, e prendere il potere di fatto le forze partigiane jugoslave del Maresciallo Josip Broz “Tito”, che avevano posto fine alla presenza nazista (Zona di Operazioni Litorale Adriatico, formalmente facente parte della Repubblica Sociale Italiana, di fatto annessa al Reich).
Ancora prima che la zona di frontiera venisse separata in base agli accordi di Belgrado tra una Zona A sotto amministrazione militare anglo-americana (le città di Gorizia, Trieste e Pola) ed una Zona B sotto amministrazione militare jugoslava (Fiume e l’entroterra delle altre tre province, laddove Zara si considerava già assegnata alla rinascente Jugoslavia), l’occupazione “titina” segnò pagine luttuose per la comunità italiana. La guerra di liberazione nazionale jugoslava aveva assunto caratteristiche annessioniste e gli oppositori del progetto andavano eliminati. Nei “Quaranta giorni” trascorsi dal primo maggio al 12 giugno 1945 centinaia di italiani risultarono infoibati (in continuità con le stragi di settembre-ottobre 1943 in Istria e Dalmazia), deportati, eliminati sbrigativamente o scomparsi senza far più ritorno. Non si trattava solamente di fascisti o collaborazionisti, ma anche di antifascisti, democratici e patrioti che, dopo aver combattuto nella Liberazione contro i fascisti e i nazisti per la liberazione di quei territori, adesso si opponevano alle mire del regime comunista di Belgrado: d’altro canto già durante la Resistenza ci furono episodi in cui partigiani italiani furono eliminati o fatti oggetto di delazione da parte jugoslava in quanto ribadivano l’italianità di queste terre.
Anche nei mesi che precedettero la firma del Trattato di Parigi il 10 febbraio 1947 nelle zone sotto controllo jugoslavo, in violazione di ogni normativa internazionale e in spregio ai diritti umani, le autorità “titine” procedettero ad un sostanziale processo annessionistico, eliminando in primo luogo il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria, che si era riattivato al fine di fronteggiare questa nuova dispotica presenza straniera. La longa manus dei servizi segreti jugoslavi e della sua polizia politica (Ozna) operava con il chiaro intento di colpire la presenza italiana in quelle regioni.
Ad oltre un anno dal 25 aprile, mentre l’Assemblea Costituente ormai operava alacremente e in un clima di ritrovata serenità, il 18 agosto 1946 a Pola, città ancora formalmente italiana, un attentato provocò una carneficina con un numero di morti che, a seconda delle diverse fonti, oscilla tra le 70 e le 110 unità (a riprova dell’esigenza di approfondire tali accadimenti), cui sommare un centinaio di feriti, tra i bagnanti che in località Vergarolla assistevano ad una manifestazione sportiva. Si trattò della prima strage della storia dell’Italia repubblicana, con un numero di vittime impressionante e paragonabile alle ben più note stragi degli Anni di Piombo.
Recenti pubblicazioni scientifiche hanno fornito più dubbi che soluzioni alla ricostruzione dei fatti, mentre il Comune di Gorizia ha dato risalto alle ricerche condotte presso l’Archivio Centrale di Stato e l’Archivio Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri da un gruppo di ricercatori della Lega Nazionale in merito alla sorte dei deportati dal capoluogo isontino, di cui non si è saputo più nulla. Fondamentale sarebbe poter ampliare lo spettro delle ricerche in merito alla sorte dei nostri connazionali ed alle dinamiche che portarono all’eccidio di Vergarolla accedendo a fonti archivistiche custodite negli Stati successori della Jugoslavia. Il recente recupero delle salme degli infoibati di Castua vicino a Fiume, tra i quali il Senatore del Regno Riccardo Gigante, ha dimostrato un’attitudine a collaborare da parte delle autorità della Repubblica di Croazia, con cui sarà opportuno cooperare per individuare altri siti in cui giacciono spoglie di nostri connazionali in Istria, Carnaro, Dalmazia ovvero laddove sorgevano campi di concentramento nell’entroterra croato.
L’approfondimento di queste ricerche e l’impostazione di sinergie con Lubiana, Zagabria e Belgrado (ove sono ancora conservati archivi della exRepubblica Socialista Federale Jugoslava) non possono essere affidate solamente alla buona volontà ed alla determinazione degli storici e dei ricercatori che afferiscono alle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, ma necessitano di un adeguato sostegno istituzionale.
Il 2 giugno 1946 le popolazioni del confine orientale, ancora appartenenti in punta di diritto allo Stato italiano, non poterono partecipare al Referendum istituzionale, segnando un’altra grave tappa nella scissione delle tragedie vissute al confine orientale italiano dal resto della storia patria.
Anche in considerazione delle recenti polemiche scaturite da dichiarazioni di associazioni e centri culturali il cui unico scopo è quello di negare l’esistenza delle foibe, una Commissione d’inchiesta parlamentare dedicata a ricostruire le pagine ancora oscure di questo oscuro dopoguerra sanerebbe parzialmente questa ferita e contribuirebbe a fare chiarezza su eventi che ancora oggi risultano oggetto di polemiche, giustificazionismi, interpretazioni fuorvianti e strumentali.